Lettera Aperta della Prof.ssa Perrina
Questa mattina, più degli altri giorni, a Villanova del Battista, si percepisce un
presagio di mistero inquietante. Il cielo è illuminato dal sole, ma è un sole
che non ci fa gioire, è un sole che non ci riscalda, ma che avvolge il paese in
un’atmosfera di tensione e paura; in strada non si ode rumore alcuno; in
casa il silenzio è interrotto solo dal bip, bip, bip, dei messaggi che si
rincorrono. Si ha paura di aprirli perché, sappiamo bene, che non contengono
il gioioso saluto di buon giorno, ma missive di morte ed allarme.
Ormai il cerchio si stringe sempre di più, l’Irpinia è contagiata.
Iniziano i primi contagi a Villanova e a Flumeri, paesini lontani dalle
metropoli, lontani dall’inquinamento eppure fortemente contagiati. Si
maledice l’untore che si è comportato come Don Ferrante, di manzoniana
memoria, che negando l’esistenza della peste finiva, egli stesso, per morire di
peste. Si è così, un untore, o forse più, a Villanova e d’intorni. Questi gli
argomenti che rimbalzano, sovente, nei telefoni. Gli sguardi di tutti si
focalizzano sui cellulari che da strumento di piacere si è trasformato in ricette
di sciagure.
Fino ad ieri il paese si mostrava calmo, una calma apparente; la gente in
religioso silenzio si dipanava in ammirevole ordine davanti ai negozi,
indossando la mascherina ed aspettando il proprio turno. Nell’attesa ognuno
guardava l’altro con sospetto, indietreggiando se questi si avvicinava. Oggi la
spesa arriva a domicilio.
La paura paralizza, il timore ci rende fragili e ci spinge a guardare ed
esaminare il miglior amico come un potenziale nemico.
Circolano voci sui contagiati, si cerca di risalire ai contatti e da questi ad
ulteriori contatti e da questi allo scatenarsi di dubbi che assalgono tutti, forse
un saluto da lontano, forse una chiacchiera scambiata per strada, forse un
busta da una mano all’altra.
Per la prima volta, dopo circa 75 anni, l’Italia non assaporerà la primavera,
per la prima volta gli italiani si trovano ad affrontare un futuro senza la
certezza del domani. Si combatte con tutto l’ardore e la passione che solo gli
italiani posseggono.
Si mostrano cartelloni e manifesti dai toni festosi recante la scritta “Ce la
faremo”; si intonano canti sui balconi inneggiando l’inno nazionale. Si canta e
si piange, si canta e si piange. Mai come in questo momento l’amor per la
nostra Patria è radicato in piccoli e grandi; l’orgoglio di essere italiani si
avverte nei nostri cuori e nelle nostre vene. Si rincorrono immagini del
passato, si ricordano i nomi di personaggi italiani illustri di fama mondiale, si
menzionano letterati ed artisti che hanno cambiato con le loro opere il volto
del mondo. (Da Dante a Ferrante, da Leonardo ad Oliva, dal Bernini e
Brunelleschi a Boeri ecc. ecc.); si rincorre un parallelismo tra passato e
presente quasi a voler ricevere conferma della grandiosità del nostro passato
rispetto alla miseria del presente che stiamo vivendo.
Questo bisogno di fratellanza, quest’urgenza dell’altro per esorcizzare la
paura è grandemente meraviglioso. Permettetemi, però, di avanzare qualche
dubbio riguardo al facile contagio. Mi riferisco ai balconi di Napoli, ai
balconi di Eboli, ai balconi di Salerno, di Palermo dove la distanza tra un
balcone e l’altro è minima; affacciarsi sui veroni e cantare a squarciagola
implica l’espulsione di saliva nell’aria, quell’aria che, a distanza ravvicinata,
può trasportare il maledetto virus, può alimentare il contagio. Nessun
governante ha parlato di divieto di affacciarsi al balcone, ma è evidente che il
“buon senso” ci deve mettere in guardia; io so bene che sono gesti puri
dettati dalla forza di combattere; ma, attenzione, fortemente pericolosi,
secondo il mio modesto parere, laddove le distanze sono fortemente
ravvicinate. Dico questo perché alcuni dati mi danno ragione.
Fino a qualche mese fa morivano solo i vecchi, oggi muoiono anche i giovani;
fino a qualche giorno fa era poco più di un’influenza, oggi viene definita la
peggiore delle pandemie nella storia dell’umanità; fino a qualche giorno fa i
numeri dei guariti era alto, ora per poco non pareggia con quello dei decessi;
fino a pochi giorni fa il virus sopravviveva per poche ore, oggi sopravvive 72
ore. Voglio dire che scienziati, virologi e governanti non riescono a fornire
giuste informazioni perché il fenomeno nuovo e terrificante è ancora oggetto
di studi e scoperte, il virus si modifica e le informazioni acquisite appaiono,
repentinamente, obsolete. L’unica certezza è che occorre restare a casa,
occorre lavarsi e disinfettarsi, occorre evitare anche le uscite minime.
Pertanto i contesti che possono far insorgere qualche dubbio meglio evitarli.
Quando, inizialmente, sono state adottate delle misure preventive da parte
del governo circolava il termine “draconiane”, cioè norme rigorose e severe;
ma, alla luce dei nuovi eventi, di draconiano non c’era nulla. Ora ci
lamentiamo del contrario e cioè che lo sbarramento tra una regione e l’altra e
tra le stesse nazioni doveva essere totalitario, doveva riguardare gli aerei, i
treni, i pullman. L’Italia “s’è desta” recita l’inno nazionale, ma noi dovevamo
pretendere: “l’Italia si arresta” e non contestare sempre e comunque.
Questa mattina mi sono decisa a scrivere perchè , di fronte alle ultime notizie
sempre più preoccupanti, voglio lanciare un grido, un grido di terrore ed
allarme.
Ieri sera sono rimasta sconvolta nel vedere alcuni ospedali del nord, le
rianimazioni, i medici e gli infermieri stremati, gli ammalati intubati, il numero
dei morti in lunga fila davanti ai cimiteri. I congiunti che si asciugano le
lacrime guardando da lontano il proprio caro che non vedranno più. “Escono
da casa con cappotto e cellulare e non rientrano più”, questa la testimonianza
di una dottoressa che con le lacrime agli occhi racconta di un papà di 42 anni
che, prima di essere intubato, la implora per strapparle una promessa, IL
RISVEGLIO, perché ha due bambini. Il numero dei morti sale, giovani, meno
giovani e vecchi, il virus non ha preferenze.
Il popolo italiano, ora, finalmente, ha capito che non si può più scherzare,
non si può più fare i furbi. Eppure, ho saputo che da Ariano, cittadina definita
zona rossa, esce gente per andare a lavorare in altri paesi. Vogliamo metterci
in testa che occorre paralizzare tutto, occorre arrestare tutto, altrimenti la
morte sarà la nostra compagna di viaggio costante da qui ed in futuro.
Viviamo, oramai, con un tormento costante: l’incertezza del futuro.
Cosa abbiamo più paura di vedere? Ciò che è proprio sotto i nostri occhi
(Goethe).
In un periodo storico come il presente, il corona virus ci porta a riflettere,
“dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno”, da un oceano all’altro, sulla
nostra condizione di precari nei confronti della vita. Dopo la pandemia,
sicuramente, i nostri vecchi comportamenti saranno spazzati via per
assumerne di nuovi, indubbiamente si baderà più alla sostanza che
all’apparenza.
Seguitiamo a combattere, seguitiamo ad avere fiducia e speranza senza
dimenticare che l’Italia accoglie nel suo seno la città definita “Caput Mundi”
“Ipsa Caput Mundi, bellorum maxima merces, Romacapi facilis”. “La stessa
Roma, capitale del mondo, la più importante preda di guerra, agevole a
soggiogarsi”.
Ciò che scriveva il poeta latino, Marco Anneo Lucano nel 61 d.C. risulta, oggi,
terribilmente vero e non solo per Roma, ma per tutta l’Italia. “Agevole a
soggiogarsi” da parte di chi? Non da eserciti possenti e valenti, ma da un
minuscolo ed invisibile nemico in primis ed anche da chi, madre natura ha
creato malvagio, dallo stesso che si spaccia per fratello.
Non dimentichiamo neanche per un attimo i colori della nostra bandiera, non
esitiamo a cantare, tenacemente, l’inno di Mameli, non abbandoniamo mai e
poi mai la convinzione che abbiamo avuto la fortuna di nascere nel Paese
più splendido del mondo, il più ambito per il clima, per la cultura, per le
strutture artistiche, per la posizione geografica, per il mare, per il sole, per la
moda, per i grandi letterati, artisti e scienziati di fama mondiale, per
l’appellativo di Roma, “Caput mundi”.
Un caloroso ringraziamento a tutti i medici, infermieri, personale sanitario
che, da giorni, nelle trincee, combatte per non far spegnere una vita; che da
giorni rinuncia al riposo ed al pasto, che da giorni assiste alla potenza del
corona virus su corpi inermi, che da giorni gioisce per una guarigione e
piange per una disfatta. Sono i nostri eroi, gli eroi di tutto il popolo italiano.
Grazie
“Tante cose possono aspettare, altre si possono rimandare, ma la vita no
perché nasce una sola volta per ognuno di noi”.
Felicita Perrina