Gli studenti di oggi pagheranno la didattica a distanza per tutta la vita, e non solo metaforicamente
DIDATTICA A DISTANZA, UN DIBATTITO INTERGENERAZIONALE
di Valentina Flamini (biologa molecolare), Alessandra Basso (TINT, università di Helsinki), Sara Gandini (Epidemiologa/Biostatistica)
Quando si guardano le cose in prospettiva, può accadere che le vediamo piccole solo perché sono lontane. Un caso molto simile è il dibattito sulla chiusura delle scuole. Si tende a sottostimare le gravissime conseguenze dell’interruzione della didattica in presenza sulle generazioni future solo perché al momento sembrano molto lontane, quando in realtà, le ricadute economiche in termini di minori entrate e maggiori difficoltà nel mondo del lavoro, peseranno su tutta la società fino alla fine del secolo. Insomma, gli studenti di oggi pagheranno di tasca propria le nostre scelte di oggi, e di questo dobbiamo tenere conto.
L’interruzione della didattica in presenza ha un forte impatto sulla quotidianità degli studenti e il loro apprendimento. Le conseguenze a lungo termine vanno però ben oltre i problemi di gestione e accudimento che vediamo oggi e avranno effetti sulla loro vita futura e sul benessere di tutta la società.
Gli effetti più immediati sono quelli che riguardano il livello di istruzione, la dispersione scolastica (cioè quegli studenti che lasciano la scuola senza finire il ciclo di studi) e la capacità di apprendimento, ma anche l’allarmante aumento dei casi di violenza e abuso nei contesti più disagiati.(1) Meno evidenti, ma altrettanto preoccupanti, sono le conseguenze di lungo periodo sull’aspettativa di vita e il benessere delle future generazioni.
Ecco cosa dicono alcuni degli studi più recenti.
Secondo due report dell’Ofsted, l’ufficio per gli standard scolastici e dei servizi all’infanzia nel Regno Unito, le chiusure di marzo hanno provocato una regressione dell’apprendimento e delle competenze di bambini e ragazzi di tutte le età.
Tra i più piccoli, alcuni sono regrediti nella capacità di alimentarsi autonomamente, nell’uso del vasino o nelle primissime abilità linguistiche. Tra i più grandi, sono stati osservati segni di malessere fisico e psicologico e una riduzione dell’apprendimento e della capacità di restare concentrati sullo studio. I report rilevano che le conseguenze non sono distribuite equamente tra gli studenti: alcuni sono stati colpiti più duramente di altri. I ragazzi con bisogni educativi speciali sono stati particolarmente danneggiati dall’interruzione dei servizi educativi.(2)
Uno studio dell’OCSE (Organization for Security and Co-operation in Europe) conferma che l’interruzione della didattica in presenza nella primavera del 2020 ha significativamente ridotto l’apprendimento degli studenti rispetto a un normale anno in presenza. Questo avrà conseguenze a lungo termine sul loro livello di istruzione, perché l’apprendimento si costruisce mattone su mattone e le lacune di oggi peggiorano la capacità degli studenti di imparare nei prossimi anni di scuola. È la qualità dell’apprendimento, più che il numero di giorni di scuola, ad avere effetti di lungo periodo sull’economia e il benessere dei paesi coinvolti.
Secondo l’OCSE, questa situazione avrà effetti economici a lungo termine sui futuri guadagni degli studenti coinvolti e più in generale sul livello di benessere economico della società. La riduzione dell’apprendimento potrebbe costare alle future generazioni il 2,6% dei guadagni futuri per tutta la vita lavorativa. A livello societario, modelli di crescita economica permettono di stimare un calo del PIL dell’1,5% fino alla fine del secolo, a causa della riduzione del livello di istruzione della forza lavoro. Si tratta di stime al ribasso, che non tengono conto di altri fattori come gli effetti sullo sviluppo sociale, emotivo e motivazionale dovuti alla mancanza di contatto con i compagni di classe e gli insegnanti e che potrebbero essere ulteriormente aggravate dal protrarsi dell’emergenza sanitaria.(3)
Sulla base della nota associazione tra livello di istruzione e aspettativa di vita, uno studio pubblicato su JAMA qualche giorno fa stima che la chiusura delle scuole negli Stati Uniti potrebbe causare una diminuzione della aspettativa di vita degli studenti coinvolti, per un totale di 5,53 milioni di anni di vita in meno. Secondo gli autori dello studio, questo scenario è peggiore di quello che si sarebbe osservato tenendo le scuole aperte.(4)
Insomma, le scelte di oggi hanno conseguenze a lungo termine, che protraendosi nel tempo possono raggiungere dimensioni inquietanti. Questo solleva un problema di giustizia intergenerazionale, perché i provvedimenti politici contemporanei sulla scuola e la formazione dei giovani avranno conseguenze enormi sulle generazioni future, che non possono essere ignorate.
La domanda che molti continuano a porsi, tuttavia, è se l’attuale emergenza non richieda necessariamente un sacrificio da parte della popolazione scolastica. Al netto, cioè, del disastro socio-economico che l’interruzione della didattica in presenza comporterebbe, la chiusura degli istituti scolastici contribuisce significativamente al rallentamento della diffusione del virus SARS-Cov-2? Abbiamo più volte riportato studi che smontano questa ipotesi. L’interruzione della didattica in presenza, cioè, non ha alcun effetto benefico sull’andamento dell’attuale epidemia. A tal proposito rilanciamo una intervista su Skytg24 in cui Sara Gandini mostra alcune analisi statistiche che di nuovo confermano i risultati presentati in questi mesi e scagionano la scuola e i giovani:
https://www.youtube.com/watch?v=7-rTJynqvMk&feature=youtu.be
Di seguito presentiamo le evidenze scientifiche più recenti.
In un studio inglese ancora in fase di revisione, ma molto interessante per il gran numero di persone coinvolte, ben 12 milioni (12 milioni!), vengono confermate le evidenze accumulate finora: il rischio di infettare ed infettarsi con il SARS-COV-2 cresce all’aumentare dell’età. I ricercatori hanno analizzato i dati del Sistema sanitaria nazionale inglese sui pazienti COVID, considerando sia le forme più lievi che i casi che hanno dovuto ricorrere all’ospedalizzazione, terapia intensive compresa. Lo studio copre il periodo che va dal primo febbraio al 3 agosto 2020 e divide i casi analizzati in due categorie: persone che vivono con minorenni e adulti che non hanno avuto contatti stretti con bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni. Nei poco più di 9 milioni di adulti al di sotto dei 65 anni conviventi con bambini fino agli 11 anni di età, non è stato trovato un maggior rischio di contrarre il virus rispetto al resto della popolazione. Il rischio aumenta leggermente per chi ha convissuto con ragazzi dai 12 ai 18 anni, ma a tale rischio non corrisponde una maggiore letalità in caso di infezione da SARS-Cov-2. Non è stato registrato alcun effetto significativo della chiusura delle scuole sull’andamento dell’epidemia nei nuclei familiari analizzati rispetto al resto della popolazione. Ricordiamo che il lockdown in tutto il Regno Unito è iniziato il 23 marzo ed è terminato a fine giugno. Gli istituti scolastici, tuttavia, sono sempre rimasti aperti per i figli dei “lavoratori essenziali”, come, ad esempio, operatori sanitari e lavoratori dei supermercati. Nonostante le limitazioni dello studio come, ad esempio, il fatto che all’inizio della pandemia venisse sottoposta a tampone una piccola percentuale della popolazione, l’analisi statistica è robusta ed in linea con i dati pubblicati finora.(5)
Uno studio pubblicato recentemente su Science confronta i dati di due stati indiani e conferma la più alta probabilità di trasmissione tra persone della stessa
età, in particolare per bambini (<14 anni) ed anziani (>65 anni). La fascia d’età con la maggiore percentuale di casi positivi è quella compresa tra 20 e 44 anni.(6)
L’importante rivista Jama Pediatrics ha recentemente pubblicato una meta-analisi che riassume i dati di 14 studi da tutto il mondo. I risultati di questo tipo di analisi sono particolarmente importanti, perché vanno al di là delle peculiarità dei singoli studi e dei diversi metodi utilizzati. I risultati confermano che chi ha meno di 20 anni ha una probabilità di essere contagiato che è il 50% in meno rispetto agli adulti. Un po’ più elevato negli adolescenti rispetto ai bambini, ma in entrambi i casi minore degli adulti.(7)
Anche il recente report sull’andamento dei casi in Spagna dopo l’apertura della scuola ha indagato l’andamento dei contagi in diverse regioni e mostra che l’evoluzione dell’incidenza globale in Spagna non suggerisce effetti significativi della riapertura delle scuole. Nella maggior parte dei casi vi è assenza di aumento dei casi di età pediatrica o un lieve aumento compatibile con lo sforzo diagnostico nelle scuole.(8)
In uno studio australiano pubblicato pochi giorni fa su Lancet, i ricercatori si chiedono se la chiusura delle scuole abbia effettivamente diminuito il rischio di infezione fra gli studenti ed il personale scolastico nella regione del New South Wales in un arco di tempo che va dal 25 gennaio al 10 aprile 2020. Il periodo, quindi, comprende il primo picco epidemico, quando le scuole in Australia erano ancora aperte. I ricercatori hanno messo insieme i dati dei tamponi con quelli dei test per gli anticorpi in studenti, personale scolastico e nei loro contatti stretti. Confrontando i dati provenienti da 25 scuole di grado diverso con quelli della popolazione generale, si è potuto osservare che studenti e personale scolastico non hanno contribuito alla diffusione del virus più della popolazione generale.(9)
Un report dell’Institute of Labor Economics evidenzia attraverso un’analisi statistica robusta come la riapertura delle scuole in Germania non abbia contribuito all’aumento dei casi COVID-19 a livello nazionale (10). In questo documento, gli autori stimano l’effetto delle vacanze di fine estate sul numero di nuovi casi di SARS-CoV-2 in Germania. Lo studio identifica un effetto causale delle interruzioni di fine estate sfruttando il programma scaglionato delle pause estive negli stati federali tedeschi. I risultati mostrano che i cambiamenti nei modelli di mobilità non contribuiscono alla diffusione del virus. Le misure igieniche di prevenzione e contenimento adottate alla riapertura delle scuole hanno funzionato bene dopo le vacanze estive in Germania e hanno ridotto il rischio di epidemie nelle scuole.
Vogliamo infine spegnere le polemiche sorte a seguito della pubblicazione di un articolo secondo cui l’aumento dei casi COVID-19 in Italia è imputabile alla riapertura delle scuole (11) collegandoci all’analisi di Antonella Viola ed Enrico Bucci (12). I due scienziati mettono in rilievo una serie di difetti di analisi e interpretazione dei dati, primo fra tutto il fatto che i contagi non sono rapportati alla numerosità della popolazione globale delle fasce di età: il confronto che si propone non significa nulla finché non viene prima corretto su questi numeri. E concludono anche loro che “la popolazione scolastica […] non ha avuto un ruolo primario nell’esplosione di casi a cui assistiamo da settimane.” Tanto rumore per nulla, insomma.