Il caso Tik Tok: le norme non servono ai bambini senza genitori educatori

Giovanbattista Trebisacce
Giovanbattista Trebisacce,Professore di Pedagogia generale Università degli studi di Catania e Socio AIDR

 Il caso Tik Tok: le norme non servono ai bambini senza genitori educatori

di Giovanbattista Trebisacce, Professore di Pedagogia generale  Università degli studi di Catania e Socio AIDR

E’ un anno ormai che la pandemia ha stravolto i ritmi e le abitudini  della nostra quotidianità e della nostra società. Relazioni umane, lavoro, intrattenimento, di colpo, da un giorno all’altro, hanno “traslocato” sul web.

La rete è divenuta un’agorà virtuale. In questa  nuova “piazza virtuale” sono stati catapultati non solo gli adulti ma  anche i bambini.  

Dall’inizio della pandemia, infatti, i bambini sono  “costretti” dinanzi a telefonino, tablet o computer che sia, per  svolgere le attività ordinarie, dalla scuola al catechismo, alla festa  di compleanno o di onomastico.

In questi mesi anch’essi, al pari degli  adulti, hanno “sopportato” mille privazioni e l’unico contatto con  amici e parenti è stato virtuale, attraverso, magari il gioco online  su una console o su uno smartphone o attraverso i canali social, Tik  Tok in maniera particolare.

Non voglio dilungarmi sul triste avvenimento di cronaca, relativo alla morte della piccola Antonella di Palermo: le inchieste avviate  dalla Procura ordinaria e da quella dei minori accerteranno se davvero  la piccola si sia lasciata attirare in un’assurda sfida  su Tik Tok.,  la Black out challenge.

Il Garante della privacy, intanto, ha  bloccato Tik Tok.

Per l’ennesima volta, a mio avviso, rischiamo di cadere in una tentazione: illuderci  che i commi di legge, le norme, i divieti, facilitino o, ancor più, risolvano la sfida educativa.  

Semplice,  facile, illusorio dire: “troppo pericoloso, chiudiamo tutto”.

Noi  adulti intanto continuiamo sulla rete a fare quello che vogliamo: ieri  tutti selezionatori della nazionale o allenatori, oggi tutti virologi,  politici, scienziati, pedagogisti, giocatori d’azzardo.

Le norme, le  leggi servono agli adulti e in particolare a quegli adulti che  producono applicazioni, device e contenuti digitali. Ai bambini servono invece genitori-educatori. Iniziamo, dunque, a dare il buon esempio.

Secondo il Global Digital Report del 2019, gli italiani  trascorrono quotidianamente in media un’ora e 46 minuti sui social. Se  i figli ci vedono con la testa sempre chinata sullo smartphone, saremo  poco credibili quando vorremo limitarne a loro l’uso.

Occorrono dei  momenti “social free” (l’ora dei pasti, il dopo la cena), da dedicare  al rapporto con i figli. Il genitore deve offrire fiducia al figlio;  l’educazione è fatta di esempio, di fiducia ma anche di un controllo  garbato.

La tecnologia in questo ci aiuta moltissimo: per controllare  e/o limitare l’accesso ai siti inadeguati, assai utile può essere il  parental control o filtro famiglia, che permette ai genitori di  monitorare o bloccare l’accesso a determinate attività da parte del  figlio (siti pornografici, immagini violente o pagine con parole  chiave), regolare il tempo di utilizzo,  ecc.

Tanti sistemi, tante  opportunità, ma la tecnologia non basta per tenere i figli  completamente al sicuro. Bisogna investire sull’EDUCAZIONE.

La  questione dell’approccio alla tecnologia da parte dei minori è  sostanzialmente educativa e non normativa. E la povertà educativa non  sempre coincide con quella economica, ma spesso è più diffusa e  trasversale.

Altro aspetto da considerare è che uno smartphone, inteso  come strumento con libero accesso a tutti i contenuti della rete e a  tutti i social network, non andrebbe dato prima dei 13 anni.

Non è  questo un problema di norme (i social sono già vietati dai loro stessi  codici ai minori di 13 anni), ma esclusivamente educativo. Educare  all’uso della tecnologia significa soprattutto EDUCARE. Ripartire dai  fondamenti della genitorialità vuol dire anche riconoscere il proprio  errore nel caso, assai frequente, in cui si è consentito ad un figlio piccolo di far uso dello smartphone, “perché lo avevano tutti” o “per  farlo stare buono”.

Questo significa soggiacere ad una dittatura  culturale che andrebbe rovesciata se davvero teniamo a cuore la  questione educativa. Non ricordiamoci solo quando si verificano queste tragedie.

L’Europa nel 2015 chiese agli Stati membri di (ri)decidere  l’età minima per iscriversi ai social, con la possibilità di elevarla  a 16 anni. I vari governi avevano 3 anni per decidere, ma da noi  nessuno ne ha discusso ed il limite è rimasto quello americano, ovvero  i 13 anni.

Il processo di digitalizzazione che in questi giorni ha  invaso i temi della politica deve necessariamente essere affiancato o,  meglio, preceduto da un reale, massiccio e corretto processo formativo.

 

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