Grottaminarda: un anno di Lockdown. “Un anno è trascorso e non è cambiato nulla, ma almeno siamo qui!”.
Con questa frase che unisce due emozioni contrastanti ma perfettamente armoniche tra loro comincia il “viaggio dei ricordi” di due infermiere della postazione SAUT- emergenza territoriale 118 di Grottaminarda: Erika e Celeste. Le professioniste si raccontano e raccontano la loro esperienza dell’ultimo anno, da quando il COVID-19 si è letteralmente impossessato delle vite di ogni uomo del pianeta, sia dal punto di vista fisico che psichico. “Erano circa le 3 della notte tra il 5 ed il 6 marzo 2020 quando partivo con la mia equipe 118 di Ariano Irpino verso la casa di un paziente che scoprimmo essere affetto da COVID solo giunti presso la sua abitazione, quindi, non eravamo bardati avevamo solo la mascherina indossata solo dopo aver capito la gravità della situazione, non eravamo stati avvertiti di un presunto COVID e ciò aumentò in modo esponenziale la possibilità di un contagio. Non potevamo non soccorrere ma avevamo davvero tantissima paura anche solo di toccare il paziente nonostante ciò, come è giusto che sia, abbiamo salvato quella vita. Nessuno di noi sapeva cosa sarebbe accaduto, eravamo ignari ed inconsapevoli che da lì a poco, le nostre vite sarebbero cambiate, credo per sempre”. Celeste è stata la prima infermiera 118 nei paesi della Valle dell’Ufita a gestire l’emergenza sanitaria Covid-19 e nelle sue parole traspaiono ancora la paura e la sofferenza provate in quei giorni. Già! Perché, poco dopo l’intervento di quella notte, alle prime luci dell’alba, arrivava un comunicato dell’ASL che ordinava a medico, infermiere, autista e soccorritore coinvolti in quel primo intervento COVID la quarantena preventiva. “abbiamo lasciato immediatamente la postazione all’arrivo del cambio equipe, anch’essa avvisata prima dell’orario in cui avrebbe dovuto cominciare il turno. Mille pensieri hanno invaso la mia mente. Confusione, paura, sconforto, l’immagine della famiglia, mio padre e mia madre, non potevo permettere che fossero contagiati a causa mia. Non smetterò mai di ringraziare l’autista soccorritore Antonio che era con me in servizio quella notte e che senza esitare un attimo, vedendo la preoccupazione dell’intera squadra ha messo a disposizione la sua abitazione in modo gratuito per tutto il tempo della quarantena fissato a 15 giorni. In quel periodo non venivano effettuati i tamponi, per cui ogni ora che passava era vissuta con una fortissima ansia. Non sapevamo se avevamo contratto o meno il virus, fino al quindicesimo giorno, la paura e la preoccupazione che provavamo erano Una parola così brutta ma per me in quel momento così bella. I miei genitori erano salvi, io ero fuori pericolo, almeno fino a quel momento”.
“Durante il primo lockdown dinanzi il pronto soccorso dell’ospedale Frangipane di Ariano Irpino c’erano file di ambulanze in attesa di trasferire il proprio paziente nella struttura e raggiungere altri interventi. Abbiamo aspettato fino ad 8 ore, con il paziente presunto COVID nell’ambulanza. Ricordo gli occhi, ho nella mente ogni singolo sguardo. Noi eravamo inconsapevoli, spaventati e loro terrorizzati, in 20 anni di servizio sanitario 118 in cui ho vissuto eventi davvero tragici, ciò che ricordo sono quegli occhi dei pazienti COVID che imploravano aiuto e che mi chiedevano cosa stesse accadendo, se avrebbero visto ancora i propri cari. Io sono stata vicino ad ogni paziente e tutti loro cercavano la mia mano. Avrei voluto staccarmi, avevo paura per me, per i miei genitori, ma non potevo privare quella persona di quell’umanità che caratterizza la nostra professione e che dovrebbe dimorare in ogni essere umano. Speravo di non essere contagiata e nel contempo guardavo quegli occhi. Il coronavirus cagiona la mancanza d’aria, quindi l’ammalato, capisce che sta per morire. Si muore lentamente e consapevolmente. Vorrei dimenticare ma non ci riesco, dallo sguardo del paziente COVID si resta imprigionati”. Erika è intervenuta in centinaia casi COVID sia come infermiera che come volontaria. “abbiamo coperto doppi turni, pochi infermieri per un territorio molto vasto, i dispositivi scarseggiavano e cercavamo di non sprecarli. Un grazie particolare alla dottoressa Rosanna Bruno che, oltre ad essere un dirigente medico è anche la responsabile dell’ufficio emergenza Asl Avellino che non ha mai fatto mancare le protezioni a nessuna postazione 118, talvolta, addirittura fornendocele personalmente. Ricordo che non riuscivo nemmeno a tornare a casa, avevo l’ossessione del contagio e di conseguenza la trasmissione alla mia famiglia. Infatti, il presidente della p.a. Grottaminarda Michele De Luca per evitare pericoli, prese in locazione un immobile, ove tutti, medici, infermieri, autisti e soccorritori potevano trascorrere l’autoisolamento pur non essendo positivi al virus evitando così, il rischio per i propri familiari. Mio padre veniva a trovarmi ogni giorno ma potevamo vederci solo dalla finestra. Ho trascorso cosi 4 mesi circa. Avevo la mia famiglia a poche centinaia di metri e non potevo toccarli, mangiare insieme. In pochissimo tempo, le cose che erano la normalità, erano diventate rare. Si dice che lo straordinario, sia negli occhi di chi guarda e per me che stavo vedendo decine di persone morire ogni settimana era diventato straordinario solo svegliarmi il mattino. Ogni notte, nelle poche ore in cui riuscivo a dormire rivivevo quanto accaduto durante il giorno, la mattina appena sveglia pregavo Dio affinché anche durante quella giornata non avessi contratto il COVID e la sera appena sdraiata sul letto ringraziavo il Cielo per non essermi contagiata. Si parlava e si parla solo di coronavirus, non esisteva come non esiste null’altro”. Nonostante la curva dei contagi abbia subito variazioni in aumento e in diminuzione, non bisogna abbassare la guardia e purtroppo c’è ancora molto lassismo da parte di chiunque. “appena termino il mio turno, durante il tragitto verso casa vedo molte persone che passeggiano e che fanno assembramento e nutro molta rabbia. Noi rischiamo la vita ingabbiati in dispositivi che non ci permettono di grattarci, bere, urinare anche per diverse ore e la gente non comprende.” Sostiene Erika con fermezza, “ci sono stati anche episodi di emarginazione da parte di alcune persone, come se noi fossimo gli untori”, lamenta Celeste. Entrambe ritengono di essere cambiate notevolmente da quando è cominciata l’emergenza, sono stremate, preoccupate, spaventate, Erika non vede un futuro, vive il presente trascorrendo la maggior parte delle sue giornate in ambulanza cercando di salvare vite. Celeste invece ha ancora una speranza. Pensa ad un mondo senza COVID dove crescere i suoi futuri figli nella spensieratezza che dovrebbe caratterizzare tutti i bambini del mondo e a cui, purtroppo il virus sta negando la bellezza delle loro età. Entrambe confidano nei vaccini e sperano che in breve tempo tutti saremo vaccinati. A volte dimentichiamo che infermieri, soccorritori, medici e tutto il personale sanitario sono esseri umani con cuori pulsanti, anime vive e vite proprie. Dimentichiamo che sotto quelle divise, ci sono persone che cercano di aiutare a vivere. Non si tratta di robot o di umanoidi provenienti da un altro pianeta bensì di nostri amici, fratelli, genitori, parenti da cui pretendiamo il meglio e a cui, non stiamo offrendo la miglior parte di noi stessi. Perché ora, la cosa migliore sarebbe non negare o sottovalutare il virus ma aiutare questi nostri fratelli a sconfiggerlo.
Stefania Cappuccio