La bellezza, faticosa, dell’Arte secondo Gaetano Cantone: “La conoscenza è libertà”

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In un momento storico dove la società e anonimi “poteri” portano ad indirizzarci, con una spinta dolce, a risaltare il nostro concetto di IO, invece del nostro Essere Collettivo, l’arte e il suo mondo assume un ruolo fondamentale alla riscoperta di comunità, che si riconosce in alcuni valori condivisi. “E mentre siamo tutti piccoli naufraghi alla deriva, qual è la qualità dell’arte? Che cosa mi aspetto da essa? A che mi serve l’arte? La risposta non può che essere una: a portare bellezza alla mia vita e la bellezza a volte è faticosa. La bellezza porta pure le lacrime”. È l’architetto, e maestro, Gaetano Cantone, presidente dell’Istituto Italiano per lo Studio e lo Sviluppo del Territorio, con queste parole, ad affascinarci in una lunga intervista che non è stata il solo disquisire di arte ma anche una riflessione sui tanti punti interrogativi che ci inquietano e tormentano invitandoci a ritrovare i valori, la morale, la consapevolezza, l’approfondimento culturale nella “libertà della conoscenza”. L’artista Gaetano Cantone va oltre la semplice intervista e con il suo versatile e spiccato talento, ci ha spinto con “forza”, seppur con un linguaggio delicato e raffinato, a percorrere i diversi percorsi e sentire dell’arte e degli uomini.

La crisi dell’arte è una questione del tutto italiana o generalizzata nel mondo?

“Se ammettiamo che l’arte sia in crisi dobbiamo ammettere che esista un sistema dell’arte che non è in sintonia con il mondo, con le tensioni, con i progetti dei gruppi umani e culturali ma è organico al sistema economico e ai sistemi politico-culturali i cui obiettivi e preoccupazioni riguardano principalmente la redditività. Sono in crisi i sistemi dei mercati dell’arte e quelli dell’industria culturale più che della creazione artistica: la contraddizione è tra sistema di mercato e sistema della ricerca culturale avviata, ormai, su due strade che sembrano perseguire due direzioni diverse. Gli artisti hanno preso consapevolezza critica che non si può sprecare una vita in adorazione del feticcio mercato in cui non si persegue più la qualità delle opere, le quali diventano, in modo sterile, oggetto di una mera operazione commerciale. Bisogna, quindi, interrogarsi non sul come collocare l’arte sui mercati ma come collocarla nel sistema della conoscenza, sul perché i saperi non si confrontano con essa, perché l’arte contemporanea non è in grado di rispondere alle domande che riguardano la “memoria del passato”, perché non ha la possibilità di porre domande e sollecitare dubbi, e perché non contribuisce più a costruire percorsi di senso.

L’arte è comunicazione?
“L’arte entra a pieno titolo nella comunicazione. Si pensi a quanto la pubblicità deve alle soluzioni visive dell’arte contemporanea, dall’arte moderna, dall’esperienza dei Dadaisti ai pittori Futuristi prestati alla propaganda. Ci sono state soluzioni di grandissima qualità. Per non parlare di un generale movimento definibile di “ritorno all’ordine”: molti artisti si sono dati alla comunicazione, alla stampa e sui vari media hanno costruito, disegnato, dipinto, fotografato, esperienze che sono finite nella grafica applicata. Da sempre l’arte è stata comunicazione con una responsabilità anche ideologica, contribuendo ad educare il gusto delle diverse gerarchie sociali della classe dominante e a veicolare un’idea precisa di società anche da un punto di vista antropologico. Quando l’individuo (come artista) entra in relazione con l’altro (chiamiamolo fruitore-spettatore-il riguardate) attiva un meccanismo di offerta e domanda ma nell’accezione culturale del termine”.
Oggi ci sono artisti capaci di andare oltre la comunicazione pura e semplice?
“Sì! Ci sono, ma riflettevo su di una difficoltà enorme che esiste. Gli artisti sono oggi fondamentalmente ignoranti. Sono tenuti nell’ignoranza, sono coltivati nell’ignoranza e le scuole specifiche non fanno molto in questa direzione. Il lavoro di tanti docenti va sprecato anche perché non riescono a motivare una risposta, una reattività da parte degli allievi. Certi metodi di insegnamento non soddisfano più le giovani generazioni, non entrano più nel loro linguaggio, nei loro codici. Il perché? A mio avviso “manca l’idea del Futuro” che non è più, come all’inizio del Novecento, ‘un’idea’ vitale in grado di proiettare in avanti le soluzioni per le proprie contraddizioni e per i nostri problemi esistenziali. Si pensi ad esempio al rapporto di fiducia stabilitosi con la ricerca scientifica. Un secolo veloce che ha mutato pelle tante volte, quasi, una ogni decennio. In questo inizio del nuovo millennio, che ha solo saputo mettere ‘ordine’ in alcune cose già stabilite alla fine del ‘900, faccio fatica a vedere le differenze e i cambiamenti tra il 2017 e il 2007. C’è maggiore continuità negli ultimi trent’anni che tra un decennio e l’altro del secolo scorso. Voglio cioè sottolineare la vivacità intellettuale, umana, antropologica del novecento. Però, alle nuove generazioni, tutto questo lavorio non è arrivato ancora perché non siamo in grado di leggere le loro istanze. Non possediamo i codici. Per esempio: la loro perdurante malinconia non è una posa adolescenziale, né un accadimento solo neuronico, è un dato strutturale. Loro non hanno il futuro e sanno di non averlo. E allora perché si dovrebbero  preoccupare dell’arte? Però quando li metti a lavorare i risultati vengono purché si parti dall’esistenziale e non dal mero dato tecnico. Se vengono coinvolti sul piano esistenziale tutto ha un senso, ma se sono ‘indottrinati’ all’arte senza far capire loro a che cosa serve, la conoscenza diventa uno stucchevole repertorio utilizzato per la didattica e la pedagogia che alla fine risultano astratte e fuori dalla vita, senza relazione con essa”.

Su queste considerazioni come facciamo a soddisfare il bisogno dell’arte che ognuno ha e coinvolgere le nuove generazioni?

“Occorre rifare un ragionamento sul sistema valoriale della società. Se questa società si fonda sul valore del danaro, non si porterà mai il valore della conoscenza alla stessa stregua, alla stessa importanza, alla stessa pervasività di quella del danaro e del successo. Sono due vie diverse, non opposte, ma molto divergenti che non si incontreranno molto facilmente, perchè in sé, ognuna di queste vie, ha un’idea diversa di società, un’idea diversa di collettività”.

L’arte ha una funzione critica?

“Certo che ce l’ha. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento l’artista moderno diviene auto committente. Non c’è più la commissione Pontificia, ad esempio, a ordinare l’opera e quindi sei un artista che opera in base a quello che pensa. Questa libertà si trasforma in una schiavitù, in una condizione mortifera quando non trovi sussistenza dall’attività creativa, che può non trasformarsi in valore economico. Così si determinano le coordinate culturali entro le quali si opera. Essere un artista oggi, con cento anni di difficoltà in più e con cento anni che posso assomigliare a tre o quattrocento anni di tante veloci mutazioni che abbiamo accumulato in ottanta anni del secolo scorso, è sempre più difficile”.

L’arte è crescita culturale al di là di una rinascita e della libertà vera e propria?

“Io penso che sia una nascita più che una rinascita. Cioè si mette al mondo un individuo consapevole di quel che fa. Se si nasce in qualche maniera liberi si riesce ad avere anche la libertà della conoscenza. Se ci si regala la libertà di rapportarsi al mondo non si può fare a meno di andare verso la conoscenza; acquisire sempre più nozioni e dare più profondità alle cose con cui si viene a contatto. Bisogna essere liberi per spaziare sull’insieme dei saperi a nostra disposizione. Se invece ti ‘impongono’ un modo di pensare e un altro per organizzarsi, si diventa omologati; come in un sistema totalitario in cui non viene esaltata la forza della persona, la forza dell’essere umano, la forza dell’individuo. L’arte porta ogni volta al nascimento e non al ri-nascimento perché non abbiamo più il valore presunto, così come lo avevano nel ‘400 o  nel ‘500 desunto dall’esperienza della civiltà classica intesa come modello ideale di riferimento preminente”.

C’è qualcosa che cattura il suo sguardo nel mondo dell’arte così com’è oggi?

“A me dispiace che spesso le nuove generazioni manchino di impegno qualitativo, nella loro attività creativa, difficile da trovare nella modernità a meno che non si faccia distinguo puntuale tra gli artisti di contesto (cioè quelli del contesto mercantile, del contesto del successo mediatico) e gli artisti fuori dal contesto. Spesso sono quelli fuori dal contesto che portano avanti la qualità della ricerca permanente. C’è, ci sono, occorre andarseli a cercare. Ovviamente c’è sempre una soggettività che trasborda, tracima. Se l’arte moderna avesse i suoi gorghi, avesse i suoi arrovellamenti (ce li ha in alcuni esponenti) probabilmente sarebbe più affascinante. Dinanzi alle difficoltà della vita cerchiamo nell’arte una consolazione o una soluzione mentre essa  è soltanto un’interlocutrice: ma l’arte “deve” assumersi la responsabilità di essere portatrice di bellezza nella vita degli esseri umani, altrimenti non ha molto senso”.

Se può esprimere un desiderio sull’arte del futuro; ossia che cosa desidera, che cosa si aspetta?

“Mi aspetto consapevolezza da parte degli artisti e mi aspetto che gli artisti siano più autentici e più bravi. Serve, infatti, un maggior grado di consapevolezza culturale. L’artista deve essere cosciente che non si tratta di giocare con dei materiali ma occorre che questi siano indirizzati in una semantica, sul piano dei linguaggi. Bisogna crescere come persone: un artista di qualità è anche un uomo di qualità”.

Gioseph Izzo