Posso quasi vederlo girare, il mondo, stamattina. Parole, passi, domande, risposte, occhi, sguardi, sorrisi, pensieri, idee, frastuono. La gente gli cammina addosso e lui continua a girare, senza accennare la minima stasi. Il tempo e la sua frenesia che coppia adrenalinica. Siamo a N.Y. e neanche un secondo va sprecato. Anch ’io sono tra la folla, è una mattina di settembre. Cammino senza dare troppa importanza a chi mi sta accanto. Penso al lavoro che mi aspetta. Quello mi basta a diventare cieca davanti alla moltitudine di persone che mi gravitano intorno. Non capivo o non potevo sapere cosa mi avrebbe fermata. L’aria era densa di tranquillità. Una mattina come tante. Un cielo stranamente terso, quasi una colata di azzurro liquido su Manhattan. Le torri sembravano più accecanti del solito. I reticoli d’acciaio erano lo specchio del sole. Tutto continuava a correre, veloce come sempre. Sembrava uguale al giorno prima, eppure sarebbe stato diverso da ogni giorno a venire. Ferma davanti al semaforo rosso solo qualche secondo. Dall’edicola posta di lato, una cartolina sbilenca mi invita a posare lo sguardo sulla scritta: I love NY. Nessun passante si era mai fermato a comprarla. Troppo banale. Me lo sono detta anche io. Da quando mi ero trasferita ai nuovi uffici delle torri non avevo mandato neanche una cartolina ai miei. “Lo farò domani”. Il semaforo verde riapre la corsa. Undici passi veloci e lunghi. Quasi una premonizione. Entro nella prima torre, sono dentro l’ascensore. “Ultimo piano, grazie!”. Non guardo neanche chi pigia il bottone. Ho fretta. Mentre salgo il cuore non si arresta nella sua corsa, continua a battere incessante. Pulsa e pompa sangue, vita che abbraccia il corpo che resta in movimento, mentre il mondo che mi gravitava intorno era pronto, quasi genuflesso, a prendere il destino di tremila anime nelle mani. Ecco il mio ufficio, quello davanti alla finestra. “Se mi metto subito al lavoro riuscirò a finire per le sei.” Guardo l’orologio, non riesco a vedere l’ora.
Un boato. Una pioggia di vetri caldi mi tramortisce. Buio. Riapro gli occhi e divento prigioniera dell’inferno. La guancia sinistra schiacciata sul pavimento bollente. La scrivania preme sulla schiena. Con la coda dell’occhio riesco a vedere un uomo, dalla finestra sventrata, che agita un fazzoletto. E’ sulla torre opposta. Chiede aiuto, perché? Sono io a dover essere salvata. Lui che c’entra? La mia illusione si è incenerita in un secondo, neanche il tempo di prendere un sorso di vita e caffè nero. Un balzo e si lascia cadere nel vuoto. Ho paura di cercare una risposta. Implacabilmente, il terrore e la follia hanno vinto il movimento del mondo. L’undici settembre tutto si è fermato. Arrestato. Uno scontro frontale senza via di scampo. Le bocche piene di panico. Neri e bianchi indistinguibili, ricoperti di polvere, corrono in tutte le direzioni possibili. N. Y. brucia nel fuoco dell’odio. Il mondo è immobile, attonito davanti ai falchi della morte. Sento un tepore misto a freddo intenso.
La morte mi guarda con sospetto, sa che non voglio lasciarmi andare. Prima di prendere sonno ho da scrivere una cartolina. Devo spedirla ai miei genitori. Tu che leggi, scrivila per me. Prendi dal mio spirito le parole, aiutami perché neanche ora riuscirò a pronunciarle. La paura mi cava la lingua. Muta. Un freddo attanagliante mi asfissia. Accanto a me c’è il mio capo. Ha una scheggia conficcata nel cranio. Perde sangue, non si muove. Che angoscia morire dopo di lui. E’primo anche in questo. Sento il pavimento che sussulta. Una visione mi proietta nel destino che mi attende. Eccola, una maschera di rabbia. Cammina nel piano sventrato. Muove i banchi, le sedie, alza le scrivanie, sposta i vetri. Un cenno della sua mano e le urla si perdono in un’eco micidiale. È l’inizio della fine. Non mi aspettavo di morire oggi. I giganti di acciaio hanno deciso di collassare. Se non sono morta nello schianto, morirò sotto le macerie. Nessuno mi troverà. Neanche un brandello. Tutto si fonderà in un immenso cratere di fumo e fiamme. Da cosa mi riconoscerà mia madre? Neanche sapeva che lavoravo in questa tomba di cemento e acciaio.
Se solo avessi inviato quella cartolina, di certo avrei scritto:
I love N.Y! Un saluto dalla città in cui sono morta.
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