Giovanni Vuotto: diario di un medico

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Giovanni Vuotto: diario di un medico
La fondazione Don Gnocchi di Sant’Angelo dei Lombardi da anni fa parte della mia
vita lavorativa.
La stretta attualità mi spinge a scrivere del mio impegno medico alla Don Gnocchi di
Tricarico. Avevo più volte parlato in varie aziende delle precauzioni da prendere per
prevenire le patologie trasmesse da coronavirus, secondo le indicazioni del Ministero
della Salute. Rispettare le indicazioni sull’igiene delle mani, eseguire frequentemente
il lavaggio con acqua e sapone o frizione con gel idroalcolico, mantenere una distanza
di sicurezza con le altre persone di almeno 1 metro, indossare la mascherina chirurgica,
indossare i guanti.
Essere in primo piano a diretto contatto con i malati di coronavirus è completamente
diverso. Il coronavirus è un virus subdolo, un po’ vigliacco; la sua caratteristica è di
essere molto contagioso. Ma la cosa peggiore è che moltissimi di coloro che vengono
contagiati non si ammalano e non presentano alcun tipo di sintomi.
Questo vuol dire che un numero molto alto di persone, soprattutto giovani e bambini,
sembrano non avere niente e invece lo possono trasmettere senza rendersene conto agli
altri, in particolare anziani e persone malate.
L’Italia è un paese con un numero molto alto di anziani; siamo la seconda nazione al
mondo per numero di vecchi con un quarto della popolazione che ha più di 65 anni.
L’elevata mortalità è dovuta anche a un altro aspetto che rischia di compromettere una
delle parti più belle della nostra vita, cioé il fatto che in Italia le famiglie sono molto
più unite che altrove; spesso i piccoli sono affidati ai nonni dai genitori che lavorano;
i giovani più dinamici si spostano nelle città, hanno molti contatti, viaggiano, ma
continuano a frequentare i genitori e anche gli anziani che vivono vicino, mentre gli
adulti fanno i pendolari nei luoghi di lavoro, ma poi, la sera, tornano nelle case di
provincia dove abitano e tornano a vedere anche i genitori anziani; a noi italiani piace
stare insieme, in famiglia e abbiamo molti contatti tra generazioni.
Questa cosa bellissima, in questo momento, può aumentare i contagi e le malattie gravi;
per questo dobbiamo essere responsabili: sospendere un po’ i contatti per difendere le
nostre bellissime famiglie.
Quando il responsabile della Don Gnocchi mi chiede di andare in trincea sto leggendo
sul giornale: “in Italia record dei medici contagiati in corsia e anche di morti. Sono
perplesso. Ho paura.” Mia moglie dice: “tu pensi agli altri e a me chi pensa?” e mio
figlio aggiunge “alla tua età dovresti essere assistito e non assistere altri”. Davanti a
me la statuina della Madonna salus infirmorum, sembra sorridermi. Mi sento bene e
decido di andare non senza aver prima manifestato alla famiglia tutto il mio affetto.
Durante il viaggio non ho incontrato una sola autovettura. A un certo punto un cartello
lampeggiante “Alt zona rossa”. Ho pensato a quanti problemi ha creato e crea un
piccolo virus: emergenza sanitaria, emergenza economica, cambiamento totale delle
abitudini di vita. Pensavo a come l’Europa si è presentata divisa all’inizio di questa
epidemia. Sarebbe stato bello se fin dall’inizio le decisioni le avesse prese l’Europa e
non i singoli stati.
L’Europa è troppo interdipendente per consentire ai singoli paesi, anche ai più forti, di
sopravvivere da soli. Gli stati europei non si possono presentare disordinatamente sui
mercati in concorrenza fra loro per raccogliere i fondi necessari.
La crisi del coronavirus dimostra la cecità e il vuoto di pensiero dei cosiddetti
sovranisti. Nessuna parte dell’Europa è in grado di sopravvivere da sola, né è in grado
di isolarsi da una epidemia come quella del coronavirus.
All’indomani della seconda guerra mondiale le coscienze più illuminate, sia fra i
vincitori che fra i vinti, vedevano la risposta nell’Europa e attribuivano i guai già vissuti
al nazionalismo che oggi si chiama sovranismo.
“Ex malo bonum” diceva Sant’Agostino. Dalla crisi (crisi in greco significa separare
decidere) le menti più illuminate diranno in che modo creare istituzioni europee più
solide e più capaci di difendere gli interessi di questa vasta comunità di cittadini.
Con tale marea di pensieri che mi frullavano per la testa sono arrivato a Tricarico. Di
Tricarico in provincia di Matera conoscevo un po’ di storia e nulla più. Sapevo che è
una città arabo-normanna con uno dei centri storici medioevali meglio conservati della
Basilicata.
È una delle diocesi più piccole di Italia, il Vescovo Monsignore Giovanni Intini è
particolarmente impegnato nella lotta contro il virus.
Arrivo a Tricarico domenica 29 marzo 2020. La Don Gnocchi è un fabbricato su 5
piani. I primi due sono uffici e palestre; il terzo è una RSA. Quarto e quinto sono centri
di riabilitazione. Dal 28 marzo 2020 Tricarico è diventata, con ordinanza del Presidente
della regione Basilicata, “zona rossa” a causa di circa 40 casi di covid19 presso la
fondazione Don Gnocchi.
La Fondazione è parte integrante dell’ospedale visto che condivide il laboratorio
analisi, radiologia, farmacia, cucina, bar, mensa, camera mortuaria. I covid sono
fortunatamente concentrati su un solo piano, il quarto.
Quando arrivo alla Don Gnocchi domenica 29 marzo al quarto piano vi sono tutti
ammalati covid: li ricordo ad uno ad uno; sono tutti stampati nella mia mente e impressi
nel mio cuore.
Il responsabile della sicurezza, un ragazzo giovane, ma molto preparato mi spiega come
accedere al piano incriminato che è completamente isolato dal resto della struttura;
dopo la vestizione salire da un lato, visitare gli ammalati, aggiornare le cartelle, lasciare
gli indumenti inquinati e scendere dall’altro.
Gli occhiali e la visiera che non sono monouso vanno disinfettati prima di uscire dal
reparto. È come se entrassi in un luogo pieno di fango, diceva il responsabile della
sicurezza, per non portare il fango in tutta la struttura, prima di uscire bisogna liberarsi
delle sovra scarpe e di tutti i vestiti sporchi.
Si è fatto tardi e per non visitare la prima volta di notte gli ammalati covid mi faccio
dare notizie dall’infermiere di turno, persona molto disponibile, mi faccio dire nome,
età, motivo del ricovero (questo è un centro di riabilitazione), stato clinico attuale di
tutti i ricoverati.
Per semplificare le cose l’infermiere mi manda via WhatsApp frontespizio della
cartella e terapia attuale. Anche le cartelle cliniche non possono uscire dal reparto
perché potenzialmente infettanti. Prima cosa da fare è quella di aggiornare la terapia.
Chiamo a telefono la dottoressa che seguiva i ricoverati prima di finire in isolamento
domiciliare perché positiva al coronavirus e, secondo il protocollo nazionale,
aggiungiamo un antinfiammatorio e un antibiotico.
Come voi sapete i virus sono resistenti agli antibiotici ma questo tipo sembra avere
anche un’azione virale, prescrivo analisi di laboratorio un poco a tutti per tenere la
situazione sotto controllo.
La prima notte scorre senza intoppi; purtroppo sarà l’unica. Mi conforta un video di
bambini africani che, sorridendo, incitano in coro l’Italia a tenere duro perché il nostro
paese ha vissuto momenti difficili nella storia e li ha sempre superati.
Il lunedì mattina mi reco all’Oasi del Carmine a meno di un km dalla Don Gnocchi.
Quello del Carmelo è un antico convento risalente al ‘600. La diocesi lo ha
recentemente riorganizzato ed è diventato sede della Caritas locale.
Al piano superiore le stanze, dapprima adibite a ritiri spirituali ora ospitano soggetti
positivi al coronavirus che non hanno bisogno di assistenza medica. La mia stanza è
completamente separata da quelle che ospitano i covid. Dopo qualche ora di riposo
incontro il Vescovo Monsignore Intini che mi racconta che l’isolamento non è vissuto
bene dalla popolazione, per lo più anziana, che è abituata a incontrarsi nelle strade e
nelle piazze. Per questo utilizziamo, dice il Vescovo, tutti i canali legali possibili per
mantenere vive le relazioni come ad esempio la messa trasmessa su YouTube. La
messa diventerà così vero ospedale da campo.
Nella tarda mattinata sono di nuovo in ospedale e incomincio a conoscere i ricoverati.
I vecchietti della RSA sono quasi tutti in discrete condizioni tranne una signora che
qualche giorno dopo avrei trasferito all’ospedale di Matera. Hanno trovato un certo
equilibrio anche spirituale e sono consci della situazione.
Il primo giorno una vecchietta mi disse: “tu non puoi salire al quarto piano perché là
c’è il virus”. Quando mi ha conosciuto come medico mi ha ringraziato per il lavoro
svolto. I ricoverati del quinto piano sono una trentina, la metà ha subito un intervento
ortopedico per frattura o protesi da artrosi o osteoporosi grave, l’altra metà ha avuto un
ictus celebrare.
Di pomeriggio ho il primo impatto con i malati covid. Prima di andare da loro è
necessaria una vestizione particolare con sovra scarpe, doppia tuta, copri casacca,
doppia cuffia in testa, mascherina, doppio paio di guanti e visiera. Ho ricevuto un
sorriso dalla maggioranza dei ricoverati è questa è stata la mia prima grande
soddisfazione.
Mi sono rivestito la notte per visitare un ammalato che desaturava (diminuiva la
quantità di ossigeno nel sangue). Dopo opportuna terapia è migliorato e sono sceso
nella stanza.
Il mattino dopo sono stato di nuovo nella Caritas dove la televisione locale intervistava
due africani che collaboravano con gli operatori locali per assistere i bisognosi:
bell’esempio di integrazione prima e collaborazione poi.
Sarà l’ultima volta che rimango qualche ora all’Oasi del Carmelo perché negli altri
giorni sarò sempre nell’ ospedale, mattino, pomeriggio e notte.
Tutto il pomeriggio di martedì 31 marzo lo dedico ai covid, ascolto storie, problemi
familiari. Ho una parola di incoraggiamento per tutti ma anche io ricevo sostegno
morale soprattutto dai malati più gravi. Un grazie ricevuto da loro è stato ed è tutt’ora
fonte di soddisfazione e stimolo a fare sempre più e sempre meglio.
Dicevo prima che questo è un virus insidioso. Alcuni che sembrano in buone
condizioni, improvvisamente peggiorano e incominciano a desaturare; fortunatamente
si riprendono dopo opportuna terapia.
Arriva il mese di aprile; spero vi sia un miglioramento per tutti. Così non è purtroppo.
Sono costretto a trasferire a “Malattie infettive” di Matera un signore della mia età
affetto da paresi emilato sinistro per ictus celebrare.
L’ossigenazione che normalmente è 97% scende al di sotto di 90%. Non ha altri
problemi particolari ma, siccome noi non siamo attrezzati per terapie speciali al di fuori
di somministrazione di ossigeno e farmaci, sentito il parere del responsabile della Don
Gnocchi sempre presente in fondazione, lo trasferiamo in reparto per acuti. Ho
attribuito la desaturazione all’ictus pregresso e non soltanto al virus.
Il pomeriggio ascolto le storie di altri ammalati, tutti hanno qualcosa da dirmi o da
chiedermi. Non ho molte risposte da dare ma solo una parola di incoraggiamento per
tutti. Un ragazzo della Costa d’Avorio di 23 anni ha un tumore al midollo osseo. Dalle
analisi risulta una emoglobina molto bassa. Richiedo due sacche di sangue che arrivano
in tarda serata. Le trasfusioni procedono bene durante la notte senza reazioni avverse.
Il giorno dopo, la situazione è complessa; solo due ricoverati sono senza febbre, quasi
tutti lamentano mal di testa e anche mal di pancia con nausea. Per non caricare lo
stomaco aggiungo in flebo farmaci antalgici. I risultati sono buoni ma c’è chi si lamenta
del vitto e chi della impossibilità di comunicare.
Faccio parlare con i familiari un signore sprovvisto di telefonino. Mi ringraziano sia i
familiari che il degente. Per così poco.
Dopo pranzo, il primo pomeriggio, sono di nuovo fra i malati. Nella prima stanza un
albanese di meno di 40 anni che sta abbastanza bene mi chiama per dirmi che il suo
vicino di letto ha difficoltà respiratorie. Per fortuna non è così; l’ossigenazione è buona
e non ha febbre; si è spaventato perché lo ha sentito tossire più volte.
La tosse è un sintomo che interessa quasi tutti i ricoverati e quasi tutti fanno ricorso ai
sedativi. Dopo aver esaminato le cartelle in cui gli infermieri scrivono la situazione
clinica di ognuno, ora dopo ora, aggiungo in terapia la vitamina D in gocce. Avrebbe
effetti positivi sul virus e comunque non fa male e non appesantisce lo stomaco.
Il ragazzo della Costa d’Avorio non ha avuto grandi benefici dalle due trasfusioni,
l’emoglobina è salita di poco, ha sempre febbre, le cosce sono spastiche e gonfie;
attribuisco tale fenomeno al tumore midollare ma ha tutto l’aspetto di un versamento
ematico. Decido di trasferirlo; con molta difficoltà riesco a trovare posto in malattie
infettive di Matera ove può essere inquadrato clinicamente.
Da noi tutte le indagini strumentali, ecografie, raggi, tac, risonanze magnetiche sono
sospese. Di ritorno nella mia stanza chiamo gli operatori sanitari positivi al coronavirus
che sono a casa in quarantena: stanno tutti bene; solo uno di loro ha un po’ di febbre. Il
mattino dopo di buon ora, guardando i pazienti tutti sofferenti e affaticati decido di
aggiungere in terapia un antivirale aspecifico che si usava per combattere l’HIV, il
virus responsabile dell’AIDS. Lo prescrivo a tutti tranne che a un ragazzo di 32 anni
che non ha mai avuto sintomi né febbre né tosse né dolori.
La richiesta va fatta alla farmacia di Matera tramite fax, uno per ogni paziente, una
compressa al giorno dopo pranzo per 7 giorni. Una scatola di 30 compresse costa 900
euro, ma credo che i soldi siano l’ultima cosa di fronte alla salute delle persone.
“Quando c’è la salute c’è tutto” diceva mia madre. Il ragazzo di cui parlavo prima mi
chiede sempre: “io sto bene, quando posso andare a casa? Non c’entro nulla con il
coronavirus”. Gli rispondo: ”pure da casa non puoi uscire; adattati a questa situazione,
tra qualche giorno ripeteremo il tampone e,se negativo per 2 volte, puoi tornare a casa”.
Oggi passiamo il tempo a guardare la televisione e a vedere i messaggi telefonici.
Messaggi e video ci tengono informati su tutto; una finestra sul mondo che ci fa
viaggiare anche solo col pensiero. Possibilità infinite. Pensate che molti di noi non
conoscono tutte le potenzialità del nostro smartphone.
Quando ero piccolo ho avuto il morbillo in maniera particolarmente aggressiva. Sono
stato una settimana a letto sotto le coperte senza fare niente. Ogni tanto veniva mia
madre a controllarmi: il tempo è passato in fretta.
Qualche mese fa mi sono operato di ernia ed emorroidi; sono stato una settimana a letto
con televisione, telefonino, visite varie: il tempo non passava mai. Nel primo caso ero
sereno e mi bastava la visita di mamma per rassicurarmi. Nel secondo caso ero
insofferente e nulla mi andava bene, neanche il trattamento degli operatori sanitari che
erano tutti miei amici.
Il pomeriggio lo dedico ad ascoltare le confidenze degli ammalati. Una signora poco
più che sessantenne affetta da SLA si è ricoverata per migliorare i movimenti e
improvvisamente si trova affetta da Coronavirus. L’ospedale che doveva migliorare la
sua situazione clinica si rivela portatore di maggiore danni.
Affronta con coraggio la malattia: “sono contenta perché questa mattina non ho avuto
febbre e poi ha chiamato mia sorella e mi ha assicurato che sta bene; anche io fra poco
starò bene e potrò tornare tra i miei familiari. Caro dottore, mi dice, ti ringrazio per la
disponibilità e ti invito a casa mia quando tutto sarà finito”. Mi da il numero di cellulare
e mi chiede di chiamarla. “io non ho il coraggio di farlo” conclude.
Un ragazzo trentenne ha la tracheotomia per problemi respiratori. Non so se la febbre,
praticamente continua, dipende dal virus o dalla cannula infetta. Aggiungo un altro
antibiotico; è un ragazzo obeso, molto dolce, mi chiede di rassicurare il fratello sulle
sue condizioni di salute. “mio fratello si è dovuto far carico anche di mia madre che ha
avuto l’ictus celebrale; prima lo facevo io; quando tornerò a casa mi dedicherò io a
mamma perché mio fratello deve badare ai suoi figli”. Quanta tenerezza in queste
parole!
La sera dalla finestra vedo un carro funebre senza accompagnatori. Ricordo le parole
del Vescovo di Avellino nella lettera dal deserto: “chiedo perdono ai morti privati della
dignità; prelevati da operatori sanitari vestiti da palombari perdiamo di voi ogni traccia.
La morte riguarda tutti, anche un passero, una quercia, una cosa, ma il morire è un fatto
personalissimo che solo noi uomini possiamo vivere; riguarda il modo solenne con cui
si va incontro alla morte con preghiere recitate tra le lacrime e con le porte della chiesa
che si aprono come braccia materne”. Oggi questo non è possibile.
A proposito della bellezza del morire ricordo una scena della peste di Milano descritta
dal Manzoni: “la madre di Cecilia porta sulle braccia la figlia morta come si porta una
bambina a battesimo, con la veste bianca, i capelli ben pettinati come per una festa”.
Anche i monatti, abituati ad ammassare i cadaveri senza cura si inteneriscono.
E a letto mi pongo tante domande senza risposta. Come è possibile che illustri virologi
divergano in modo clamoroso nella diagnosi e ancor più nella prognosi e nella terapia;
come è giustificabile che i capi di Stato delle grandi potenze occidentali si siano mossi
in maniera così diversa? È possibile che i tassi di mortalità si discostino tanto tra i vari
paesi europei; non è il momento delle polemiche; dobbiamo stare tutti uniti; ma, senza
essere disfattisti, qualche critica la dobbiamo pur fare. Penso questo mentre per
televisione la scienziata Ilaria Capua dice: “non pensiamo agli errori del passato ma a
quello che possiamo fare nel futuro”.
Il sabato mattino noto un lieve miglioramento in quasi tutti i pazienti; pochi hanno la
febbre e l’ossigenazione è soddisfacente nella maggioranza dei ricoverati.
In una stanza vi sono due signore molto distinte; mai un lamento, mai una critica, ma
solo ringraziamenti; “grazie dei controlli che mi fate, grazie dei farmaci che mi date,
grazie delle attenzioni ricevute, grazie di tutto”.
Il ringraziamento mi spinge a fare sempre più e sempre meglio, a cercare una soluzione
per ogni problema, a coinvolgere tutti gli operatori nella lotta al virus.
Ad esempio due signore che hanno avuto l’ictus celebrale sono degenti nella stessa
stanza, sono allettate e da giorni ormai non fanno fisioterapia. Allora spiego loro come
fare dei movimenti con gli arti sani e chiedo anche agli infermieri di mobilizzare
passivamente gli arti paralizzati per evitare danni dovuti alla inattività. Un sorriso che
vuole essere anche un ringraziamento mi ripaga di questo impegno.
Una signora che si alimenta con il sondino ha fatto delle piaghe da decubito. Siccome
non si regge nemmeno da seduta cerchiamo di girarla più volte al giorno e medicarla
in totale asepsi per far guarire la piaga. Chiamo i familiari con il mio telefonino e spiego
loro la situazione. Bisognerebbe fare una fisioterapia specifica mattina e pomeriggio. I
fisioterapisti, come già accennato, non entrano in questo reparto dal giorno in cui è
stata accertata la positività al coronavirus. Qui entrano solo gli operatori sanitari; anche
negli altri piani in cui vi sono degenti negativi al virus sono proibite le visite.
Come avete potuto intuire mi sono dedicato particolarmente agli ammalati COVID che
sono situati tutti al quarto piano. Pure i ricoverati al quinto piano, tutti negativi, hanno
bisogno di assistenza medica.
La notte di giovedì ho trasferito all’ospedale di Matera una signora con melena profusa
e il giorno dopo ho trasferito, sempre tramite 118, un signore con addome acuto.
In epoca normale vi sono almeno 3 medici di turno la mattina, uno per piano; da solo,
lavorando mattina e pomeriggio, riesco a visitare tutti i covid e i malati più gravi degli
altri due piani.
Il pomeriggio di sabato ritorno al quarto piano per fare il punto della situazione. La
terapia anti coronavirus comprende 4 compresse: 1 antibiotico al giorno per 7 giorni; 2
antinfiammatori per 14 giorni e 1 antivirale per 7 giorni. Non ho utilizzato l’eparina
perché ancora non si conoscevano i suoi effetti benefici. Vi sono poi i farmaci per le
patologie preesistenti diabete, ipertensione, ipercolesterolemia. Gli allettati fanno
anche liquidi endovena per evitare la disidratazione.
Alcuni pazienti presentano diarrea dovuta ai tanti farmaci per via orale. Aggiungo dei
fermenti lattici nella speranza che la situazione migliori. Una signora, invece, ha stipsi
ostinata, resistente al lattulosio. Con due clisteri praticati a distanza di 24 ore uno
dall’altro riesce ad evacuare.
La signora vicina di letto, nella stessa stanza, sta proprio benino, ma è quella che
chiama più frequentemente anche solo per farsi misurare la febbre o la pressione
arteriosa; lei che non ha febbre ed è normotesa. Cerco di spiegarle che il tempo che
dedichiamo a lei che sta bene, lo sottraiamo ad altri pazienti che stanno male e hanno
più bisogno di assistenza.
In una stanza da solo vi è un signore ottantacinquenne che sembra molto più giovane,
anche egli si è ricoverato per riabilitarsi dopo la frattura al femore. Ha una ipoacusia
marcata ma interpreta molto bene il movimento delle labbra. Mi dice che commerciava
mucche da latte e da giovane è stato anche a Lioni, il mio paese, ove ha conosciuto
diverse famiglie. Si muove con disinvoltura sulla sedia a rotella e fa continue domande
di vario genere come ad esempio: “quanti anni mi date?” È molto accorto nel prendere
i farmaci e chiede anche notizie sugli effetti e su eventuali controindicazioni di questi
farmaci.
La più dolce di questi ricoverati è una vecchietta di nome Barbara, Barbarella per gli
amici, e dice continuamente grazie. Appena entro nella stanza dice grazie, appena le
spiego la situazione dice grazie; come la visito dice grazie. E se io aggiungo “grazie a
te” replica che il ringraziamento è per tutto quello che faccio, soprattutto per me che
vengo da lontano, dalla Campania per curare i malati della Basilicata.
“Siamo tutti sulla stessa barca” dico io e lei precisa: “lo ha detto il Papa nell’omelia in
piazza San Pietro”.
La sera vedo per televisione un servizio sul disastro nucleare di Chernobyl e il mio
pensiero va a più di 30 anni fa quando compravo il latte fresco al posto di quello a
lunga conservazione al fine di evitare possibili contaminazioni nucleari. Le precauzioni
che prendevamo allora erano tante perché le radiazioni infettavano non solo le persone
ma anche tutto il creato, in particolare i prodotti agricoli. La domanda che si poneva il
giornalista era la seguente: il coronavirus segnerà la fine della globalizzazione come
Chernobyl ha segnato l’inizio?
È vero che dopo Chernobyl la globalizzazione è stata più impetuosa ma non riesco a
capire perché mai il coronavirus dovrebbe segnare la sua fine. Penso invece che creerà
una crescita della globalizzazione invece della sua riduzione.
In primo luogo il coronavirus ci sta abituando al lavoro da casa che consentirà alle
imprese di ridurre gli stipendi di molti dipendenti che non avranno a loro carico spese
di trasporto o pranzi fuori casa. Nello stesso tempo dovranno arrotondare lo stipendio
con lavori extra. Così il commercio con tutto il mondo rende più del commercio con la
sola Italia.
E passiamo all’Università: perché mai gli studenti dovrebbero pagare le stesse tasse se
i professori registrano le lezioni e le rendono disponibili on line. Molte registrazioni
sarebbero utilizzabili per anni senza aggiornamenti. Gli studenti graveranno di meno
sulle strutture riducendo i costi di illuminazione e di gestione generale. Quello che è
importante è la conoscenza della lingua inglese.
Anche la Cina ha scoperto il suo capitalismo che è diverso da quello degli Stati Uniti e
da quello Europeo. La cultura politica e sociale ci aiuta a capire come mai l’assistenza
sanitaria è gratuita in Italia e a pagamento negli USA. Ricordate qualche tempo fa un
ragazzo americano fu rifiutato dall’ospedale perché non aveva l’assicurazione. Questo
ragazzo è morto e la sua morte ci fa pensare a come il sistema sanitario italiano sia
veramente il migliore di tutti.
Una volta sconfitto il coronavirus la cultura della globalizzazione si rafforzerà rispetto
alla cultura nazionalista. La lotta contro il virus richiede una crescita della solidarietà
e della cooperazione perché il virus colpisce senza distinzioni di nazionalità e impone
all’Europa di adottare misure comuni nell’interesse di tutti.
Domenica 5 aprile è la domenica delle Palme e della Passione del Signore. Si ricorda
il trionfale ingresso in Gerusalemme di Gesù in sella a un asino osannato dalla folla
che lo salutava agitando rami di ulivo. La folla, radunata dalle voci dell’arrivo di Gesù,
stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi attorno e, agitandoli
festosamente, gli rendevano onore: “Osanna al figlio di Davide, Osanna al Redentor”.
È questa una giornata importante per la Chiesa e per tutti noi. Il primo raduno mondiale
della gioventù si è svolto proprio la domenica delle Palme. Per i malati affetti da
coronavirus e chiusi in un piano di ospedale è meglio ricordarla come seconda
domenica di passione.
Nello spazio antistante la fondazione Don Gnocchi il Vescovo ha benedetto prima le
palme e poi tutti gli operatori sanitari. Qualcuno dalla finestra salutava
affettuosamente.
Ho consegnato a tutte le persone presenti in struttura, sanitari e degenti, un ramoscello
d’ulivo. Prima di pranzo ho benedetto il cibo entrando nelle varie stanze con l’augurio
di pronta guarigione.
Quando sono tornato a casa anche io ho portato un rametto benedetto che ha sostituito
le foglie di palma intrecciate e arricchite con fiori che mia moglie era solita preparare
in questi giorni.
La giornata per me non è finita. Al terzo piano dove ha sede la RSA una signora
ottantenne non sta bene; da alcuni giorni beve poco e mangia ancor meno. Per idratarla
le abbiamo aggiunto delle flebo e abbiamo programmato un controllo di analisi di
laboratorio per il giorno dopo. La signora ha anche una fistola che secerne pus e per
questo abbiamo cambiato antibiotico. Abbiamo preferito non aspettare il risultato delle
analisi e gli effetti della nuova terapia perché la pressione arteriosa si è abbassata
considerevolmente. Il trasferimento in ospedale per acuti si è reso necessario e urgente.
Una operatrice sanitaria che è anche amica della famiglia ha pregato perché il Signore,
che vuole la salvezza di tutta l’umanità, la faccia guarire presto e bene.
Il pomeriggio della domenica sono di nuovo tra gli ammalati covid per un controllo
delle condizioni cliniche e della terapia attuale. In una settimana vi è stato un
miglioramento di tutti i malati anche di quelli che ho trasferito a “malattie infettive” di
Matera.
Sono proprio contento e cerco di dare un conforto anche comportamentale.
L’isolamento di malati e portatori è fondamentale per isolare il virus. Dico al ragazzo
che sta bene ma ha il tampone positivo: “è un tuo dovere stare in isolamento per non
diffondere la malattia, dovere civico prima di essere imposto dalle leggi. Il mancato
rispetto delle regole può diffondere il contagio in modo esponenziale”.
Durante la peste del 1630 il Manzoni rievoca l’infausta decisione sollecitata dalle
autorità civili e avvallata dal Cardinale di fare una processione solenne portando per la
città il corpo di San Carlo.
Per ammalati in isolamento incerti del loro futuro, la situazione attuale sembra non
finire mai. A tutti dico una buona parola perché ho sempre pensato che una buona
parola è altrettanto importante di una buona medicina.
La sera, a letto, dopo aver fatto la doccia, penso al rientro a casa, al risultato del
tampone che ho fatto il giorno prima, alle precauzioni che dovrò prendere in famiglia
e in società.