Donald Trump è passato a vestire, rispetto ai toni dissacranti e imprevedibili della campagna elettorale, i panni più compassati e moderati di chi pretende rassicurare l’opinione pubblica e gli osservatori internazionali. Quale la portata e quali i passaggi più significativi del discorso presidenziale. Esso è stato concepito, e lo si capisce con evidente immediatezza, ad uso interno: pochi e senza particolari approfondimenti i richiami alle dinamiche mondiali ed al possibile ruolo degli USA. Ha preteso dipingere un paese ed una classe politica, quella obamiana per intenderci, come miope e poco attenta ai bisogni dell’americano medio. Il neo presidente vuole rappresentare colui che dà voce e potere agli esclusi dal grande circo degli affari. Ha dichiarato senza equivoci che, richiamandosi a Monroe, l’America va restituita agli americani. Ha bollato come improduttiva e dannosa la politica estera attuata da Obama, non solo; ha condannato il ruolo statunitense di gendarme del mondo e pretende rinchiudere gli USA nel recinto, immaginato come paradiso terrestre, dell’isolazionismo e del protezionismo. Non sempre è facile capire cosa si cela dietro le parole, anche quando sono pronunciate da un’autorità indiscussa quale il presidente degli Stati Uniti. Le parole, le battute, i toni adoperati a scopo propagandistico spesso non corrispondono ai comportamenti che nella realtà saranno poi adottati, cessata la bagarre. Pertanto, non riteniamo utile prendere in conto tutto quello che Trump ha sciorinato durante l’intera campagna elettorale; è più opportuno partire dal discorso con cui ha inaugurato la sua presidenza. Chiari sono i riferimenti all’economia che lui auspica caratterizzata da iniziative che promuovano le industrie che, radicate sul suolo americano, producano beni ad uso americano; ha ricordato i tanti problemi che affliggono l’America, la povertà, imprese che chiudono, istruzione che vien meno ed ha assicurato che tutto cambierà. Come non lo ha detto, al di là del richiamo ossessivo del lavoro agli americani e del patriottismo, ribadito come il collante che dovrebbe garantire il successo delle iniziative annunciate. I progetti sono ambizioni: nuove strade, autostrade, ponti, stazioni ferroviarie. Manca il riferimento alle risorse a cui attingere per la realizzazione di opere così ambiziose. Un discorso che vuole essere di apertura ad un coinvolgimento maggiore del popolo, che anzi pretende ridare il potere al popolo, che ignora o finge di ignorare il diffuso malcontento per gli annunciati interventi sull’eliminazione, totale o parziale, della riforma sanitaria attuata dall’amministrazione Obama, risulta monco. Scarsi e di poco spessore i riferimenti alla politica estera. Dopo aver ribadito i tradizionali rapporti di amicizia con molti paesi, annuncia la sfida senza quartiere al terrorismo islamico. La politica estera, la grande assente, almeno per ora, negli impegni e nelle prospettive del nuovo corso presidenziale. Nessun riferimento vero ai rapporti con l’Europa, altrettanto dicasi dei rapporti con Cina e Russia, con cui pare che ci sia un rapporto di amore-odio. Ha taciuto sulla questione siriana, sul problema israelo-palestinese. Probabilmente, abbacinato dal miraggio di restituire l’America agli americani, la visione Trumpiana dei problemi del mondo si circoscrive ai paesi rappresentati dalla sola bandiera a stelle e strisce. Al momento questi sono i tratti fondamentali che è possibile cogliere nel messaggio inaugurale della presidenza Trump: protezionismo, isolazionismo, scarsa attenzione ai problemi più caldi dello scacchiere internazionale. Certo, il treno per Yuma ha appena scaldato i motori: è presto per trarre delle conclusioni. L’auspicio è che lo staff che affiancherà il presidente sia capace di indicare prospettive non prese attualmente nel debito conto e mitigare l’asprezza di posizioni e scelte che, dal nostro punto di vista, non sembrano andare nella migliore direzione, per gli Stati Uniti e per il mondo.
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